RAFFAELE MAZZAMURRO

“Su, vecchio mio! Non calarti il cappello sulla fronte.
Dà parole al dolore. La pena che non parla sussurra al cuore affranto e gli ordina di spezzarsi.”
(William Shakespeare,
Macbeth, Atto IV, scena 3, Malcolm)

“Queste poche, adamantine parole di Shakespeare ci portano immediatamente al cuore della poetica di
Raffaele Mazzamurro. La profonda esigenza di dare voce alla pena, al desiderio, alla gioia, alla speranza,
all’allegrezza guida la sua ricerca artistica fin dagli esordi.
L’artista predilige un linguaggio plasmato dalle mani, fortemente denso, materico, attraverso il quale
inscenare l’eterno gioco della relazione. La relazione tra un soggetto che parla, ed un soggetto che ascolta,
che si scambiano di ruolo, incessantemente, in una giostra di equilibri in perenne mutamento…
Viene meno quel modo un po’ autoreferenziale ed un po’ narcisistico con cui siamo abituati a pensare alla
‘comunicazione’, termine talmente usato da essere abusato e svuotato di significato concreto e di
esperienza.
Ecco che qui la relazione ritrova un suo senso profondo di percorso, processo imprevedibile e che si gioca
momento per momento, che richiede presenza a sé e all’altro, che non garantisce alcun successo e che anzi
procede di pari passo al rischio del fallimento, e legittima, finalmente, anche la possibilità del fallimento.
Relazione che incessantemente sprigiona energie, che possono curare e insieme approfondire le ferite del
cuore, ma che, di certo, non ci lascia uguali a come eravamo prima di entrarvi. E comunque, volenti o
nolenti, non possiamo fare a meno di entrarvi… Forse abbiamo solo quel margine di libertà per decidere
come… ed è quel margine, infinitesimale, che fa la differenza.”

(Testo critico di Laura Ferrari)

***

“Qualche volta il destino assomiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del
percorso. Per evitarlo cambi l’andatura. E il vento cambia andatura, per seguirti meglio. Tu allora cambi di
nuovo, e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo.
Questo si ripete infinite volte, come una danza sinistra col dio della morte prima dell’alba. Perché quel
vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. È qualcosa che hai dentro. Quel vento
sei tu.
Perciò l’unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto, e chiudendo forte gli occhi
per non far entrare la sabbia. Attraversarlo, un passo dopo l’altro.
Non troverai sole né luna, nessuna direzione, e forse nemmeno il tempo. Soltanto una sabbia bianca,
finissima, come fatta di ossa polverizzate, che danza in alto nel cielo. Devi immaginare questa tempesta di
sabbia.
E naturalmente dovrai attraversarla, quella violenta tempesta di sabbia. È una tempesta metafisica e
simbolica. Ma, per quanto metafisica e simbolica, lacera la carne come mille rasoi.
Molte persone verseranno il loro sangue, e anche tu forse verserai il tuo. Sangue caldo e rosso. Che ti
macchierà le mani. È il tuo sangue, e anche sangue di altri.
Poi, quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e
a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è
che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato. Sì, questo è il significato di quella tempesta
di sabbia.”

(Haruki Murakami, Kafka sulla spiaggia)

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